Le ex-aree militari sono una risorsa per il futuro dell’habitat urbano, la cui gestione manca di trasparenza e partecipazione.
di D(i)ritti alla Città
La data è simbolica: 17 gennaio 2020. Quel giorno, nel tardo pomeriggio, in Piazza Maggiore si contrapposero due visioni opposte della città. Nella piazza c’erano centinaia di persone riunite dopo lo sgombero dell’ex caserma Sani che aveva avuto luogo il giorno prima. L’occupazione era durata due mesi ed era nata dopo un altro sgombero, quello di XM24, avvenuto nell’agosto 2019 su iniziativa del Comune di Bologna che aveva deciso di porre fine a un’esperienza di autogestione per la quale aveva concesso spazi di sua proprietà nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo.
Contemporaneamente, all’interno di Palazzo d’Accursio, il Sindaco di Bologna e il Ministro della difesa siglavano un accordo per la “rigenerazione” di due grandi ex caserme in disuso, Stamoto e Perotti, che si estendono per circa 200.000 metri quadri tra via Massarenti e il quartiere Fossolo.
Da un lato chi manifestava perché gli spazi pubblici venissero messi a disposizione delle cittadine e dei cittadini, dall’altro chi si occupava della loro privatizzazione.
L’accordo, infatti, è incentrato sulla “valorizzazione” delle aree intesa esclusivamente come strumento di “ritorno economico”. È la stessa “valorizzazione” che è stata applicata ad altre tre ex caserme (Sani, Mazzoni e Masini), che si concretizzerà in palazzi, supermercati, uffici, parcheggi, alberghi, come previsto dall’accordo siglato con Cassa depositi e prestiti.
Il copione è sempre lo stesso: beni pubblici in disuso vengono privatizzati anziché essere destinati a funzioni pubbliche, edifici storici lasciati all’abbandono vengono demoliti e ampi spazi verdi sono destinati ad essere rasi al suolo.
Ci sono altri due aspetti dell’accordo su cui è importante soffermarsi. Il primo è che il Consiglio comunale è stato di fatto esautorato. Infatti l’oggetto principale del testo è l’adozione di variazioni degli strumenti di programmazione e pianificazione urbanistica. Ma i piani territoriali ed urbanistici e le eventuali deroghe sono di esclusiva competenza del Consiglio comunale, che dell’accordo è rimasto all’oscuro.Ma all’oscuro rimangono tutte le cittadine e i cittadini: infatti l’accordo contiene una clausola di riservatezza che vieta alle parti di divulgare “le informazioni […] acquisite nel corso dell’espletamento delle attività” e il contenuto della “loro collaborazione ai sensi del Protocollo”. In pratica l’accordo, pubblico nella forma, è segreto nella sostanza.
Chi fa parte del tavolo tecnico previsto dal protocollo? Quante volte si è riunito e qual è stato il contenuto degli incontri? A che punto è il progetto di “valorizzazione”? Cosa prevede? Quali sono i tempi di attuazione? Quali variazioni degli strumenti di pianificazione urbanistica sono stati ipotizzati?
Queste domande sono destinate a rimanere senza risposta fino a quando sarà troppo tardi per intervenire. L’accordo svela la falsità dei discorsi sulla “trasparenza” della pubblica amministrazione e sulla “partecipazione”, tanto sbandierata dal Comune di Bologna. Nella realtà, la città deve essere tenuta all’oscuro fino a quando i giochi non saranno fatti. A quel punto il Consiglio comunale sarà chiamato semplicemente a ratificare scelte compiute altrove, e le cittadine e cittadini assisteranno impotenti all’ennesima sottrazione di spazi pubblici e a nuove colate di cemento.
Questo è il discorso dominante sulla gestione del territorio che D(i)ritti alla città vuole rimettere in discussione.
foto 1 e 3: Gianluca Rizzello