Rendita, riconversione e rigenerazione urbana

di Paola Bonora, geografa


Il testo che segue è stato scritto alla vigilia dell’approvazione della nuova legge urbanistica dell’Emilia Romagna, che nel 2017 segnò una svolta nella politica di pianificazione. Dietro la parola d’ordine “consumo di suolo zero” si nasconde infatti un complesso di norme che aprono la strada all’aggressione del territorio e ad una declinazione neoliberista del concetto di “rigenerazione”.
È utile rileggerlo oggi – mentre iniziano a piovere i fondi del PNRR sui progetti di “rigenerazione” – perché mostra con chiarezza gli effetti della distorsione del linguaggio e degli strumenti dell’urbanistica ad opera di un ceto politico che ha abdicato al proprio ruolo di governo dei processi sociali.
Ringraziamo Paola Bonora per avere concesso la riproduzione dell’articolo, originariamente pubblicato in Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna, a cura di Ilaria Agostini (Pendragon 2017).


La situazione è stravagante. Tutti, costruttori in prima fila, si dichiarano concordi sulla necessità di limitare il consumo di suolo. Quando però si discute su come raggiungere questo traguardo le opinioni divergono a tal punto che i dubbi sui reali convincimenti diventano davvero forti. La proposta di legge urbanistica della regione Emilia-Romagna, che pure lo dichiara presupposto di fondo assieme alla rigenerazione, introduce una tale congerie di esclusioni, deroghe, eccezioni da rendere vano l’aver fissato la soglia massima del 3%. Il nocciolo del problema sta allora non tanto nel soppesare le retoriche adottate e stabilire chi mente di più in questo Monopoli dalle condizioni mutate, ma capire quale sia il contesto entro cui le nuove regole si troveranno ad agire e quali i ruoli e gli obiettivi dei giocatori. Che gli immobiliaristi vogliano far ripartire al più presto la partita è connaturato al loro negozio. Meno che l’istituzione si faccia paladina di questa parte in maniera privilegiata, ne promuova acriticamente gli investimenti e sottostimi gli interessi pubblici che stanno alla radice della sua rappresentanza. Interessi che, sotto il versante economico, potrebbero essere almeno in parte compensati da un maggiore equilibrio fiscale tra i soggetti in campo, che preveda anche oneri e non solamente premi e incentivi. Ovvero una più giusta ripartizione delle plusvalenze generate dalle trasformazioni urbane tra privati investitori e città pubblica.

Un paradigma di equa distribuzione delle risorse e dei loro potenziali che presuppone però si mantenga istituzionale la prerogativa della decisione e della pianificazione. Facoltà e compiti che sostanziano la potestà di governo, la quale non può discendere dalle volontà private di investimento, o comunque non solo e non prioritariamente da quelle, come vuole invece la proposta di legge. E si ponga anzi l’obiettivo di contenere le ingordigie del mercato che se lasciato libero di agire produce crisi devastanti come quella che stiamo patendo.

Peccato che di questi principi nella legge non si colga traccia ed anzi i comuni vengano esautorati di ogni potere e sia concesso loro come unico strumento la negoziazione, promossa a sede delle scelte urbanistiche su iniziativa unilaterale degli investitori. Con esiti che, nonostante i benauguranti auspici di «valorizzazione della capacità negoziale» espressi fin dal primo articolo nella consapevolezza della totale assenza di queste abilità, temibilmente metteranno in evidenza la debolezza degli enti minori nei confronti degli apparati – organizzativi, tecnici, di voice – dei poteri economici con cui dovranno confrontarsi. Una battaglia decisamente impari, temo, come le previsioni urbanistiche pregresse sono lì a mostrare. Mai ridimensionate e oggi chine agli step di partenza per scattare non appena la legge sarà approvata e fruire della liberatoria dei primi anni; già diventati cinque e vediamo quanti diventeranno prima che si applichi il famoso 3%.

L’altro enunciato su cui la proposta si basa, la rigenerazione, è un lemma che nel linguaggio politico-urbanistico odierno è talmente abusato da aver perso significato preciso, diventato il contenitore di tutto come del suo contrario. Anch’esso tuttavia, proprio nella sua insistente ricorsività, svela un progetto. I costruttori sono da tempo consapevoli della necessità di cambiare campo di investimento, che quello vecchio dell’espansione nelle aree agricole ha esaurito il proprio ciclo e, fattisi accesi sostenitori del riuso, chiedono di rientrare nei nuclei storici, in aree degradate ma strategiche da demolire, ricostruire, densificare. Operazioni che chiedono all’istituzione di sostenere sottolineando l’onerosità della prima parte del processo – acquisizione e bonifica – mentre dimenticano di segnalare le fruttuose implicazioni della seconda, ossia la forte rivalutazione che scaturisce da interventi di riqualificazione e intensificazione della rendita di aree centrali e semicentrali.

La «rigenerazione» rappresenta insomma il core business degli anni futuri. Una riorganizzazione del processo di produzione dello spazio (per dirla con il buon vecchio Henry Lefebvre) destinata ad incidere sul piano sociale e territoriale, che implica l’accorciamento del ciclo edilizio.

Il bene durevole per eccellenza, che non a caso definiamo e distinguiamo come immobile, entra nel gioco dello spreco consumistico e diventa labile, deperibile, riproducibile. Una sorte che è già capitata ai valori immobiliari, un tempo garanzia di investimento sicuro, che invece hanno mostrato la stessa volatilità dei prodotti finanziari di cui erano stampella. Nel passaggio dalla materialità del moderno alla precarietà del suo post, una serie di certezze sono cadute, ora sta crollando anche quello della durevolezza dei manufatti.

Un cambiamento che sottende il rientro dalla rendita marginale, avvantaggiata nei decenni della fuga dalla città e dello sprawl, a quella posizionale di rivalutazione della centralità allocativa. Una riconfigurazione dalle conseguenze importanti sia sotto il profilo territoriale che economico e sociale, da cui potranno derivare intense modifiche degli assetti attuali. Un processo che la legge emiliana decide di affidare ai privati e alle loro volontà di investimento, anziché mantenere istituzionali le redini delle scelte locali e trarre risorse per la città pubblica.

Sullo scacchiere immobiliare si gioca insomma il destino delle città nei prossimi anni, coinvolte in un intenso processo di “riconversione” (introduco volutamente questo termine di natura industriale che mi sembra più schietto) di abbattimento, ricostruzione e densificazione – senza rispetto, come indica la legge, per distanze, altezze, dotazioni; vecchi orpelli di un’urbanistica garantista demodé. Che cambierà la fisionomia e le modalità d’uso di aree centrali, o potenzialmente tali, ora degradate o anche solo sdrucite e abitate da soggetti sociali non consoni all’estetica cool stilema dell’attrattività. Ci si dovrà intendere sul concetto di degrado, se non vogliamo trovarci i picconatori sotto casa. Torna insomma il piccone risanatore, nelle vesti gioiose e politicamente illuminate della rigenerazione.

Che alcune aree, quelle dell’urbanizzazione frettolosa e caotica dell’immediato dopoguerra, meritino riconversione è innegabile. Si aprirà in ogni modo il problema degli abitanti, spesso anziani, stranieri, ceti disagiati. Una questione che vedrà necessariamente coinvolte le periferie ai margini dell’urbanizzato, nel fatidico 3% di suolo consumabile (ma in realtà credo prevalentemente in forma di edilizia convenzionata «di pubblica utilità» e dunque esclusa dal computo), in cui dovranno sorgere nuovi edifici costruiti all’uopo con contributo esentivo e premiale pubblico, per ospitare le popolazioni espulse dalle zone gentrificate, diventate troppo onerose.

La dinamica è lineare: riconverto zone centrali demolendo, ricostruendo, densificando, in più costruisco in periferia su terreni vergini sotto l’ombrello dell’interesse pubblico, accorcio in questo modo il ciclo di vita dei manufatti e introduco l’idea della loro precarietà così mi garantisco un mercato imperituro. Un dispositivo perfetto.

Peccato sia proprio l’Emilia a farsi protagonista di un nuovo ciclo edilizio a decisa impronta neoliberista, di cui la legge in via di approvazione è il manifesto esplicativo. Che nel linguaggio ambiguo e bifronte caro alla postmodernità, sistema i tasselli disordinati di pratiche già in nuce e confeziona il quadro normativo che le legittima. Offrendo ai grandi costruttori gli strumenti per interventi di gentrification di ampia scala, non solo su edifici ma su interi comparti urbani.


Clicca qui per il testo integrale della LEGGE REGIONALE 21 DICEMBRE 2017, N.24

fotografie: Gianluca Rizzello