DOMANDE SUGLI SPAZI PUBBLICI CHE ATTENDONO RISPOSTA

di D(i)ritti alla Città
12 aprile 2022


Domenica scorsa il Sindaco ha parlato attraverso gli organi di informazione locale a proposito dello sgombero di Banca Rotta. Ha usato toni di completa chiusura verso qualsiasi forma di gestione degli spazi pubblici che non rientrino nei rigidi schemi previsti dal Comune. Nulla è tollerato se non coincide con la personale visione del Sindaco, il quale – anziché valorizzare le differenze (come il suo ruolo gli imporrebbe) – pretende di ridurle ad omogeneità. Il Comune è più interessato a costruire una retorica che manipola i concetti di partecipazione e rigenerazione urbana.

Noi siamo solidali con Banca Rotta e condanniamo l’ennesimo sgombero. Vogliamo aprire una discussione sui beni comuni che il Sindaco vuole invece chiudere definitivamente. Nell’intervista ha detto che il Comune “ha fatto un percorso importante sugli spazi”. Noi non ce ne siamo accorti: in città si contano moltissimi spazi pubblici abbandonati, probabilmente almeno 180 (non è possibile un calcolo preciso, perché – a dispetto della trasparenza della pubblica amministrazione – non esiste un censimento completo).
L’amministrazione comunale ha il dovere rispondere ad alcune domande che interessano tutte e tutti coloro che vivono e attraversano questa città:

  • Perché il Sindaco si trincera dietro la procedura formale dei bandi quando anche la normativa si è evoluta in senso differente, come attestato da alcune disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore e nel Codice dei contratti?
  • Perché il Comune di Bologna non ha finora attuato alcuna iniziativa per il riconoscimento degli usi collettivi ispirati agli usi civici, che rappresentano la forma più idonea per una gestione mutualistica degli spazi pubblici da parte di gruppi informali di cittadine e cittadini? Perché rifiuta di seguire la strada imboccata da altri Comuni (come ad esempio Padova, Torino, Bari e Napoli)?
  • Perché nell’adozione di progetti di “rigenerazione” degli immobili di proprietà pubblica non sono stati previsti percorsi di partecipazione nei quali le cittadine e i cittadini potessero realmente prendere parte al processo decisionale? Perché le rare forme di consultazione sono state ridotte alla sola possibilità di suggerire marginali correzioni a scelte già prese?
  • Perché la destinazione delle aree ferroviarie dismesse, per la cui rigenerazione sono previsti ingenti finanziamenti nell’ambito del PNRR, è stata decisa senza alcun dibattito pubblico? Perché per quelle aree un ente pubblico (il Comune) decide di utilizzare denaro pubblico (fondi PNRR) per acquistare beni pubblici senza garantire la loro gestione pubblica?
  • Perché l’ex caserma Sani – dove in passato il Comune aveva previsto la realizzazione di un grande parco pubblico – verrà quasi completamente trasformata in abitazioni private? Perché gli alberi saranno quasi completamente abbattuti? Perché anche l’ex caserma Mazzoni seguirà la stessa sorte (salvo la realizzazione compensativa di un piccolo parco) e l’ex caserma Masini verrà trasformata in abitazioni, albergo e parcheggio?
  • Perché il Comune, infrangendo le regole della trasparenza della pubblica amministrazione, ha stipulato con il Ministero della Difesa un accordo per la “rigenerazione” delle ex caserme Stamoto e Perotti nel quale è contenuta una clausola di riservatezza che prevede che nessuno debba sapere nulla del progetto? Cosa prevede quel progetto?
  • Perché, con i progetti di trasformazione dei beni dismessi approvati finora, il Comune incrementa l’offerta immobiliare in assenza di un aumento della domanda abitativa? Perché incrementa l’impermeabilizzazione del suolo e la costruzione di strade che provocheranno un ulteriore aumento del traffico veicolare? E perché consente l’abbattimento di aree verdi e adotta una strategia di “compensazioni” del tutto inutile rispetto alla distruzione della qualità ecologica e sociale dell’esistente?
  • Perché il Comune ha lasciato andare in malora parte del suo patrimonio immobiliare, come ad esempio una serie di edifici di valore storico e patrimoniale come Villa Ghigi, villa Puglioli, la scuola Sassoli in via Zanardi, gli edifici rurali di viale Lenin, via Massarenti, via Fantoni e molti altri (e tra questi l’edificio occupato da Banca Rotta)?
  • Perché la Città Metropolitana ha venduto due immobili di grande valore storico e patrimoniale come l’ex Maternità in via D’Azeglio (acquistata da un imprenditore privato che realizza lauti guadagni affittando l’immobile per ospitare una sezione del Tribunale) e l’Ospedale dei Bastardini, anziché destinarli ad uso pubblico?
  • Perché il Comune non si fa carico di curare e rendere disponibile un censimento di tutti gli spazi pubblici (non solo quelli di proprietà comunale) presenti in città?
  • Perché il Comune non promuove accordi con tutti i soggetti che a vario titolo hanno in gestione immobili pubblici (Università, Cassa depositi e prestiti, Agenzia del Demanio, Invimit, Ministero della difesa, Asl, Azienda ospedaliera, Asp, Poste, Inps, Ferrovie dello Stato) per renderli disponibili ad uso pubblico? Perché si limita a sottoscrivere accordi finalizzati esclusivamente a privatizzazione, commercializzazione e speculazione edilizia?

Facciamo queste domande pubblicamente, e ci aspettiamo che il Comune – pubblicamente – risponda.


L’illusionismo dell’innovazione (urbana): l’esperienza del Laboratorio Spazi

di Comitato per la Promozione e la Tutela delle Esperienze Sociali Autogestite


L’articolo che segue riporta una riflessione scritta a più mani a inizio 2019 da alcune persone parte dell’ex Comitato per la Promozione e la Tutela delle Esperienze Sociali Autogestite (ESA)*. L’articolo fa riferimento ad alcune questioni critiche emerse durante la partecipazione come Comitato ESA al Laboratorio Spazi, laboratorio coordinato nel 2018 dalla Fondazione Innovazione Urbana con la finalità di “ridisegnare le politiche e gli strumenti di gestione e affidamento di immobili di proprietà comunale”.
Ci sembra sensato che queste riflessioni, che non hanno avuto allora una forma pubblica, trovino ora a distanza di qualche anno uno spazio di pubblicazione (con un’integrazione finale) attraverso D(i)ritti alla città, con lo scopo di contribuire alla memoria collettiva cittadina dal basso e oltre alla retorica istituzionale.
Sono molti i punti di continuità tra le questioni sollevate in quel momento e i principi espressi nel Manifesto per gli spazi pubblici dismessi. Anche se le realtà cambiano e si trasformano, continuiamo a portare avanti le stesse battaglie per l’accessibilità e l’autogestione degli spazi pubblici!

* Il Comitato ESA è nato nel 2014 con lo scopo di promuovere e tutelare le Esperienze sociali autogestite già esistenti nel territorio di Bologna, nonché di favorire la nascita e la moltiplicazione di nuove esperienze che assumano l’autogestione e l’orizzontalità decisionale quali propri principi guida. Si è sciolto nel 2019. https://comitatoautogestione.noblogs.org/


Per una nuova politica degli spazi in città” (PNPS) è il documento conclusivo del Laboratorio Spazi, laboratorio “partecipato” proposto dall’amministrazione cittadina e facilitato dalla Fondazione per l’Innovazione Urbana (FIU), ex Urban Center. Tale documento ha lo scopo di fornire delle linee guida all’amministrazione per la costituzione di un nuovo regolamento per l’assegnazione degli spazi immobili comunali. Come Comitato ESA abbiamo partecipato ai cinque incontri del laboratorio (che si sono svolti tra giugno e novembre 2018), ai quali erano presenti realtà cittadine tra loro molto eterogenee (centri sociali anziani, associazioni, cooperative, imprese culturali, gruppi informali, spazi sociali).

Partecipazione o solo ascolto?

Il processo fin dall’inizio è stato criticato dai partecipanti in quanto, differentemente da ciò che era stato preannunciato dalla FIU, non è stato possibile definire collettivamente le caratteristiche del processo stesso (numero di incontri, scelta delle date, tempi e orari, contenuti).

La facilitazione, molto strutturata, ha lasciato poco spazio di confronto tra le realtà, e si è spesso tradotta in un botta e risposta tra facilitatore/rice e singolo/a partecipante. In questo senso ci sembra di poter definire il Laboratorio Spazi più come un momento di raccolta e rielaborazione delle varie istanze piuttosto che come un processo realmente partecipativo.

Quale innovazione?

Il documento PNPS si pone sostanzialmente in continuità con le modalità già in atto di assegnazione e gestione degli spazi pubblici in città. In particolare non viene modificato il ruolo centrale e prevalente della amministrazione pubblica nella scelta di quali spazi assegnare e con quali finalità d’uso. Non ci sembra che sia stato introdotto alcun elemento realmente innovativo rispetto al dibattito sui Beni Comuni che anima il panorama nazionale ed internazionale, sebbene molte realtà abbiano sollecitato la Fondazione sulla necessità di fare un reale passo in avanti. Secondo quanto descritto da chi ha condotto questo percorso, invece, sarebbe stato introdotto un elemento di grande novità. Qual è la nuova proposta? Le Assemblee Territoriali (pag 15 punto d. del documento), ovvero unica modalità che permetterebbe a soggetti informali e autogestiti di partecipare all’assegnazione di uno spazio comunale.

Ciò non è totalmente vero e non appare di certo una novità: nel “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” del 2014 (allegato alla delibera PG n. 45010/2014, come modificato dalla delibera PG n. 9961/2018), che all’art. 5 ha introdotto i famigerati Patti di Collaborazione, vi era già la possibilità per i soggetti informali, individuati come “cittadini attivi” ex art. 4, di vedersi affidato un luogo. Sebbene già prevista, tale modalità non è però mai stata messa in pratica per l’assegnazione di uno spazio, né davvero valorizzata dalla amministrazione comunale. Perché questa volta dovrebbe funzionare?

Al solito: tutti contro tutti e vinca il migliore…

La novità delle Assemblee territoriali non è altro che la riproposizione della coprogettazione inserita all’inizio di un iter di cui l’amministrazione ha sempre il controllo. Tale coprogettazione facilmente si traduce in una competizione tra le varie realtà per il posto in palio, posto che non può essere proposto dal basso ma che viene deciso dall’amministrazione attraverso un avviso pubblico con il quale si aprono i lavori. Se infatti le parti non dovessero trovare un accordo entro un tempo stabilito (due incontri di un’ora!) per unire le diverse progettualità, l’amministrazione mantiene il compito di decidere quale fra i soggetti partecipanti abbia il diritto di sottoscrivere il patto di affidamento (p.12 PNPS). È irrealistica la possibilità di costruire un progetto comune in così poco tempo, tra realtà eterogenee e che non si conoscono.

Allora la “novità” è questa?

In presenza di ampia condivisione all’interno dell’assemblea sul modo di gestire l’immobile, la governance dell’immobile viene affidata direttamente all’assemblea stessa attraverso la stipula di una convenzione tra l’amministrazione e un comitato di garanti, che ha il compito di assicurare il rispetto delle regole e degli obiettivi che l’assemblea si è data” (pp.10-11 del PNPS).

Anche qui, nessuna novità ma come al solito un passo indietro! Poteva essere un’occasione per promuovere un modello di riconoscimento degli spazi e di indipendenza e autonomia delle assemblee degli stessi. Invece nella proposta della FIU non c’è riconoscimento di questa autonomia ma vengono semplicemente modificati i numeri e il controllo viene affidato a un comitato interno di garanti: se prima la responsabilità legale era di uno ora è trina o più!

Niente di nuovo a Bologna…

Nella sostanza, quindi, non vi sono grandi modifiche: il ruolo decisionale dell’amministrazione nell’assegnazione degli spazi in città rimane inalterato e si fa un uso strumentale dell’autogestione con il solito tentativo di appropriazione, solo lessicale, delle pratiche nate dal basso. Nessun passo avanti rispetto all’importante dibattito in corso sui beni comuni, nonostante il Laboratorio Spazi vi abbia più volte fatto esplicito riferimento, invitando anche come ospiti esperti realtà autogestite che in Italia hanno contribuito a sollevare il tema dei beni comuni in maniera seria e arricchente (quali, l’ex Asilo Filangeri di Napoli e Macao di Milano).

Quello che emerge dal percorso del Laboratorio e dall’esame del documento finale è il riproporsi del modello partecipativo alla bolognese: il risultato è predefinito prima ancora che il processo abbia inizio. In un articolo della rivista Asini, “Partecipazione senza potere“, cui rinviamo, tale modello è stato analizzato e sviscerato in profondità. Nuovamente le istituzioni si sottraggono al dibattito sugli spazi in città – che non sono solo immobili, ma anche piazze, giardini, luoghi abbandonati e privati. Evitando il confronto e costringendo di fatto esperienze consolidate a frammentarsi e a scendere a patti con la FIU e con altri soggetti partecipanti all’avviso pubblico,l’amministrazione ribadisce che la sua finalità non è conoscere e valorizzare le espressioni della cittadinanza, ma piuttosto controllare e indirizzare queste realtà per poter costruire un proprio consenso e pensare così di risolvere anche questioni politiche legate all’esistenza di spazi cittadini (antagonisti).

Integrazione successiva (che non sapevamo ancora quando abbiamo scritto queste riflessioni):
Rispetto alle criticità sopra riportate ci pare emblematica la mancanza di comunicazione e trasparenza da parte della FIU sugli sviluppi del processo, in particolare relativamente all’approvazione (o meno) da parte del Consiglio comunale del documento conclusivo del Laboratorio, il PNPS, e alla successiva applicazione dello stesso.
A conclusione del Laboratorio (novembre 2018) ci era stato annunciato un convegno per l’inizio del nuovo anno in cui il PNPS sarebbe stato presentato pubblicamente, e al quale sarebbero stati invitati anche i tre garanti esterni, previsti dal PNPS (pag. 25). In seguito, grazie anche al contributo dei pareri dei garanti, si sarebbe dovuto ridiscutere collettivamente nell’ambito del Laboratorio delle eventuali modifiche introdotte dall’amministrazione. Ciò non è mai avvenuto né ci è stata data notizia in merito. A distanza di qualche settimana di silenzio, la FIU ha pubblicato un avviso pubblico per 5 immobili * mettendo così in pratica la “sperimentazione” presentata nel PNPS.
È poi emerso che il PNPS poteva essere attuato senza modificare i regolamenti già presenti per l’assegnazione degli spazi, a dimostrazione che nulla è sostanzialmente cambiato!

* Uno degli immobili presenti nell’avviso pubblico è quello di via Fioravanti 12 (Banca Rotta). Si rimanda all’articolo pubblicato su questo stesso sito.


I piani nascosti del Comune di Bologna su vaste aree pubbliche

Le ex-aree militari sono una risorsa per il futuro dell’habitat urbano, la cui gestione manca di trasparenza e partecipazione.

di D(i)ritti alla Città


La data è simbolica: 17 gennaio 2020. Quel giorno, nel tardo pomeriggio, in Piazza Maggiore si contrapposero due visioni opposte della città. Nella piazza c’erano centinaia di persone riunite dopo lo sgombero dell’ex caserma Sani che aveva avuto luogo il giorno prima. L’occupazione era durata due mesi ed era nata dopo un altro sgombero, quello di XM24, avvenuto nell’agosto 2019 su iniziativa del Comune di Bologna che aveva deciso di porre fine a un’esperienza di autogestione per la quale aveva concesso spazi di sua proprietà nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo.

Contemporaneamente, all’interno di Palazzo d’Accursio, il Sindaco di Bologna e il Ministro della difesa siglavano un accordo per la “rigenerazione” di due grandi ex caserme in disuso, Stamoto e Perotti, che si estendono per circa 200.000 metri quadri tra via Massarenti e il quartiere Fossolo.

Da un lato chi manifestava perché gli spazi pubblici venissero messi a disposizione delle cittadine e dei cittadini, dall’altro chi si occupava della loro privatizzazione.

L’accordo, infatti, è incentrato sulla “valorizzazione” delle aree intesa esclusivamente come strumento di “ritorno economico”. È la stessa “valorizzazione” che è stata applicata ad altre tre ex caserme (Sani, Mazzoni e Masini), che si concretizzerà in palazzi, supermercati, uffici, parcheggi, alberghi, come previsto dall’accordo siglato con Cassa depositi e prestiti.

Il copione è sempre lo stesso: beni pubblici in disuso vengono privatizzati anziché essere destinati a funzioni pubbliche, edifici storici lasciati all’abbandono vengono demoliti e ampi spazi verdi sono destinati ad essere rasi al suolo.

Ci sono altri due aspetti dell’accordo su cui è importante soffermarsi. Il primo è che il Consiglio comunale è stato di fatto esautorato. Infatti l’oggetto principale del testo è l’adozione di variazioni degli strumenti di programmazione e pianificazione urbanistica. Ma i piani territoriali ed urbanistici e le eventuali deroghe sono di esclusiva competenza del Consiglio comunale, che dell’accordo è rimasto all’oscuro.

Ma all’oscuro rimangono tutte le cittadine e i cittadini: infatti l’accordo contiene una clausola di riservatezza che vieta alle parti di divulgare “le informazioni […] acquisite nel corso dell’espletamento delle attività” e il contenuto della “loro collaborazione ai sensi del Protocollo”. In pratica l’accordo, pubblico nella forma, è segreto nella sostanza.

Chi fa parte del tavolo tecnico previsto dal protocollo? Quante volte si è riunito e qual è stato il contenuto degli incontri? A che punto è il progetto di “valorizzazione”? Cosa prevede? Quali sono i tempi di attuazione? Quali variazioni degli strumenti di pianificazione urbanistica sono stati ipotizzati?

Queste domande sono destinate a rimanere senza risposta fino a quando sarà troppo tardi per intervenire. L’accordo svela la falsità dei discorsi sulla “trasparenza” della pubblica amministrazione e sulla “partecipazione”, tanto sbandierata dal Comune di Bologna. Nella realtà, la città deve essere tenuta all’oscuro fino a quando i giochi non saranno fatti. A quel punto il Consiglio comunale sarà chiamato semplicemente a ratificare scelte compiute altrove, e le cittadine e cittadini assisteranno impotenti all’ennesima sottrazione di spazi pubblici e a nuove colate di cemento.

Questo è il discorso dominante sulla gestione del territorio che D(i)ritti alla città vuole rimettere in discussione.

 

foto 1 e 3: Gianluca Rizzello

Come privatizzare le aree pubbliche dismesse fingendo di “rigenerarle”*

di Mauro Boarelli /


Il tema delle aree pubbliche dismesse e della loro “rigenerazione” è di grande rilevanza in tutto il paese. A Bologna, alla vigilia delle elezioni locali, l’amministrazione comunale guidata dal Pd ha approvato in tutta fretta e senza alcun dibattito pubblico un accordo con Cassa depositi e prestiti Immobiliare relativo a tre ex caserme che avrà un impatto enorme, sia per la ricaduta immediata sulle zone interessate sia perché questa impostazione farà da apripista ad ulteriori interventi in programma nel prossimo futuro su altre aree attualmente in disuso.

Una breve descrizione può rendere l’idea della filosofia e delle implicazioni del nuovo progetto urbanistico e suggerire alcune riflessioni di carattere generale, valide anche al di fuori dell’ambito locale.

L’ex caserma Sani, situata tra la zona fieristica e il quartiere popolare della Bolognina, occupa un’area di 10,5 ettari, definitivamente dismessa alla fine degli anni ‘90 e dichiarata di interesse storico e artistico in base al Codice dei beni culturali. Nel piano regolatore del 1989 era stata destinata a parco pubblico, a compensazione dei pesanti insediamenti di abitazioni ed uffici previsti nella zona. Ma con il passare degli anni gli strumenti urbanistici decadono, le opere destinate alla collettività rimaste sulla carta vengono definitivamente dimenticate e le loro ragioni rovesciate, al punto che oggi si prevede di costruire in quel luogo abitazioni, edifici direzionali, commerciali e ricettivi perché tali usi – si legge nell’accordo – sono “destinati ad intercettare differenti tipi di domanda e [sono] tali da incidere favorevolmente sulla composizione sociale del contesto”. Quale sia questa incidenza favorevole non è dato sapere. Di sicuro il parco già esistente verrà quasi completamente distrutto. Infatti, verranno abbattuti 371 alberi sani, di cui 195 tutelati ed altri 47 classificati come “di grande rilevanza”.

Per quanto riguarda le abitazioni, si estenderanno tra 19.760 mq e 24.820 mq. All’edilizia residenziale sociale verrà riservata una quota modesta, pari al 20% (la stessa relazione descrittiva del progetto ricorda che il Piano urbanistico generale del Comune di Bologna prevede una quota del 30%, ma afferma candidamente che tali indicazioni “non possono essere pienamente soddisfatte per non compromettere l’equilibrio finanziario dell’operazione di rigenerazione”). A questo si aggiungono gli usi direzionali, turistico-ricettivi e commerciali che, in uno degli scenari prospettati, potranno estendersi fino a circa 13.000 mq.

Tre edifici storici verranno ceduti al Comune, per una superficie complessiva di 3.021 mq (un’inezia rispetto agli edifici privati). Per i due edifici più grandi, il Comune dichiara nei documenti ufficiali di non avere ancora alcuna idea sulla loro destinazione, e questo la dice lunga sulla priorità riservata alla progettazione di funzioni pubbliche. Ha invece le idee chiarissime sul terzo edificio, che verrà adibito a “Centro civico”: qualsiasi cosa significhi questa denominazione generica, è difficile immaginarla racchiusa in soli 68 mq.

Per un breve periodo la vicenda della caserma si è intrecciata con quella dell’XM24, spazio autogestito presso l’ex mercato ortofrutticolo nel quartiere Bolognina, di proprietà comunale. Improvvisamente il Comune decide che la convenzione deve essere revocata e nell’agosto 2019 – dopo 17 anni di attività – fa sgomberare i locali dalla polizia, guadagnandosi il plauso del Ministro dell’interno Salvini. L’accordo siglato in Prefettura che impegnava il Comune a individuare nuovi spazi entro il 15 novembre rimane lettera morta, e nel giorno della sua scadenza gli attivisti occupano l’ex caserma Sani e la aprono alla città. L’esperienza durerà solo due mesi, interrotta da un nuovo sgombero. In quel periodo era stato avviato un interessante percorso di elaborazione collettiva intorno all’uso degli spazi pubblici che aveva coinvolto numerose persone e realtà associative estremamente eterogenee, proseguito fino all’interruzione causata dalla pandemia.

L’ex caserma Mazzoni, dismessa nel 2005, si estende per circa 46.000 mq nella periferia sud-orientale della città. Gli edifici storici verranno quasi completamente abbattuti. Verranno costruite abitazioni private per una superficie complessiva di 21.000 mq (anche in questo caso la quota di edilizia residenziale sociale è indicata al 20%), parcheggi ed esercizi commerciali. L’accordo sostiene che il progetto “si pone l’obiettivo principale di restituire ai cittadini un’importante porzione del territorio”. È difficile rintracciare la sostanza di questa “restituzione”, dal momento che non sono previste funzioni pubbliche ad eccezione di un parco, spuntato all’ultimo momento per placare le proteste dei cittadini e per il quale – trattandosi di nuove alberature – bisognerà aspettare parecchio. Nel frattempo verranno abbattuti 144 alberi sani, di cui 36 tutelati.

Infine la caserma Masini, complesso di edifici vincolati per il valore storico-artistico che occupano circa 7.500 mq nel centro storico. Lo spazio è stato occupato nel 2012 dal collettivo Làbas, e per cinque anni è diventato un punto di riferimento e socialità per il quartiere, anche per la presenza di uno dei mercati contadini di “Campi aperti”. Dopo lo sgombero, nell’agosto 2017, è rimasto di nuovo abbandonato. Non esiste un progetto definitivo, ma se verrà ripreso quanto già previsto nel precedente Piano operativo (nel frattempo decaduto) verranno costruite abitazioni private e un albergo (circa 9.000 mq) e – forse – un parcheggio interrato.

Non si tratta delle uniche aree militari che daranno luogo nei prossimi anni a profonde trasformazioni urbanistiche. Nel gennaio 2020, infatti, il Comune di Bologna ha siglato un protocollo con il Ministero della Difesa a proposito di altre due grandi ex caserme, Perotti e Stamoto. Il protocollo prevede una clausola di riservatezza che impegna le parti a trattare le informazioni relative a questi luoghi come “strettamente riservate” e a non rivelare a nessuno i contenuti della loro collaborazione. In pratica, nonostante la retorica sulla trasparenza della pubblica amministrazione, si sta lavorando in gran segreto ad un’operazione di enorme portata e nulla lascia presagire che il copione sarà diverso rispetto a quello recitato in questi giorni, quando i consiglieri comunali hanno ricevuto con scarso preavviso una mole enorme di documenti senza avere la possibilità di esaminarli e discuterli in modo approfondito e i membri della maggioranza hanno approvato disciplinatamente e senza fiatare.

Nessuno sembra essere sfiorato da una idea tanto semplice quanto politicamente dirompente: le aree militari dismesse sono di proprietà pubblica, cessate le funzioni originarie devono rimanere pubbliche ed essere destinate nella loro interezza a funzioni pubbliche, salvaguardando gli edifici storici e incrementando il verde già esistente. Se la funzione prevalente cambia, quelle aree vengono di fatto privatizzate, e nessun parco o giardino residuale, nessun “centro civico” improvvisato può compensare la perdita secca che la città subisce in termini di spazi pubblici, verde, memoria storica, possibilità di creare luoghi autogestiti.

Gli amministratori pubblici danno invece per scontato che il recupero di queste aree dismesse passi obbligatoriamente attraverso vaste operazioni immobiliari. Questo schema è dettato come l’unica strada possibile, ed è organizzato intorno ad una parola magica, valorizzazione, utilizzata impropriamente nel senso esclusivo di attribuire ai beni un valore economico e ricavarne un guadagno (la cui fetta più grande – però – non andrà ai soggetti pubblici, ma agli investitori privati). Viene esclusa in tal modo la possibilità di valorizzare la ricaduta sociale che potrebbe avere un’operazione di recupero orientata ai bisogni della collettività.

Questa riduzione alla pura e semplice monetizzazione di un concetto che dovrebbe avere connotazioni ben più ampie si accompagna al meccanismo perverso del contributo premiale che gli enti locali, in base ad una legge del 2001, ricevono per ogni bene oggetto di valorizzazione. I Comuni sono quindi spinti a concludere accordi per rimpinguare le proprie casse. Il risultato, comunque, è modesto. Nel caso della Caserma Mazzoni, ad esempio, il Comune riceverà 332.741 euro, ben poco rispetto alla posta in gioco.

Ci sono altri beni pubblici per i quali, invece, il Comune è disposto a spendere, e anche parecchio. È il caso dello stadio, per la cui ristrutturazione – progettata e realizzata da un soggetto privato, il Bologna F.C. spa – il Comune parteciperà con una quota di 40 milioni di euro. Un impegno estremamente rilevante, del tutto inedito rispetto al totale disinvestimento verso molti beni pregiati di proprietà comunale, tra cui ville storiche ed edifici rurali inutilizzati da decenni e abbandonati al degrado.

Rispetto ai beni pubblici vengono quindi adoperati pesi e misure diversi a seconda dei soggetti e degli interessi in campo: a volte il Comune agisce come generoso finanziatore, alte volte come semplice agente di riscossione. Ma ciò che unisce questi comportamenti apparentemente contraddittori è la subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati, l’abbandono di qualsiasi prospettiva di programmazione urbanistica in favore di un disordinato affastellarsi di nuovi quartieri residenziali, la sostituzione dei processi partecipativi con percorsi addomesticati dall’esito già scritto che sottraggono potere ai cittadini fingendo di attribuirne. Si tratta, in sostanza, dell’abdicazione al proprio ruolo politico.

* Questo articolo è stato originariamente pubblicato su NapoliMonitor, che ringraziamo per averne autorizzato la riproduzione