InfestAzioni in città, un’intervista

Questo di via Stalingrado è il secondo insediamento che realizzate a partire dalla nascita di Infestazioni, una vera “odissea negli spazi”.
Riassumendo: lo spazio Cesare Ragazzi, il giardino del Cavaticcio della Palazzina Magnani. Dimentichiamo qualcosa?

C’è stata anche l’occupazione di BancaRotta*, che diciamo è stata la prima di questa nuova ondata post covid, un’occupazione anomala perché oltre a noi era formata da una cordata di gruppi molto variegata (fra cui anche voi di Diritti alla Città!). Sgomberata rapidissimamente anche questa, perché come da prassi il comune aveva fretta di lasciare vuoto quello spazio. Questa occupazione ha dimostrato che il comune in termini di sgomberi agisce esattamente come le grandi aziende private, anzi probabilmente anche più rapidamente.

* per maggiori informazioni: https://dirittiallacitta.org/wp-content/uploads/2021/11/thebancarotta_web.pdf

A DAC si ha come la sensazione che in città si applichino in maniera sempre più sistematica due pesi e due misure: occupazioni tollerate e altre invise; assegnazioni concordate di spazi e disconoscimento quasi aprioristico di alcune realtà. A partire dalla vostra esperienza, avete l’impressione che sia cambiato qualcosa di sostanziale nelle politiche bolognesi nell’arco degli ultimi 5 anni?

Possiamo casomai parlare di un accanimento sempre maggiore delle istituzioni locali, i democratici di “sinistra” di anno in anno hanno tollerato sempre meno forme altre di fare politica e di gestione degli spazi al di fuori dalle loro. 
A Bologna c’è stato un tentativo di sistematizzazione delle pratiche di gestione degli spazi a bando, determinando una politica del controllo sulle attività dei collettivi e una ricattabilità costante. Fondazione Innovazione Urbana ha assunto un ruolo centrale in questo processo. Perciò se non ti pieghi a questa logica sei fuori. Ma non pensiamo che questo penalizzi solo le realtà come noi che ritrovano ancora nell’occupazione un mezzo e un fine di costruzione del reale: questa modalità pone in una condizione di forte difficoltà tutto l’associazionismo che non comporta un tornaconto economico o di consenso.
È un impoverimento generale per la città.

Avete anche idea di chi e dove si prendano le decisioni su se quando e come sgomberare uno spazio temporaneamente occupato?

Il “temporaneamente” è un dato di realtà, non una nostra scelta. Da Minniti in poi lo sgombero è in mano alla questura, ma noi sappiamo bene che sono decisioni prese da strutture istituzionali, economiche e politiche di potere che si intrecciano fra di loro.

Il fatto di non avere uno spazio stabile, rende fluida anche l’identità di Infestazioni? Può essere considerato come un potenziale nuovo, oppure uno spazio stabile è essenziale per lo svolgimento delle vostre attività? Ci può essere una identità nomadica o il radicamento è l’unico modo per fare crescere un’esperienza?

L’identitarismo è un concetto che vorremmo tenere lontano dal nostro fare politico, la fluidità è uno dei nostri punti di forza al di là di avere uno spazio fisso o meno.
Probabilmente la natura a noi più congeniale è dentro uno spazio per portare avanti con agilità le nostre pratiche, ma la precarietà di spazi stabili dove riunirci ci ha temprate nell’essere più infestanti e adattive. Abbiamo imparato in questi momenti di stallo a fare maggiore autocritica, praticare l’ascolto e a scardinare certi automatismi radicati nelle quattro mura dello spazio fisico. Quello che ci ha insegnato il non avere uno spazio è che vogliamo che fioriscano in città molteplici autogestioni ognuna con le sue specificità.

Infestazioni nasce dopo lo sgombero di XM24, c’è ancora un collegamento storico o ormai possiamo parlare di una entità decisamente nuova? Come avrebbe senso percepirvi: come un collettivo, come un’assemblea, o come cosa altro ancora?

Alcun* di noi provengono dall’esperienza di XM24 e grazie a queste persone sono stat* tramandati, insegnati, molti saperi e pratiche che per l’appunto provengono da lì. Nel corso degli anni successivi allo sgombero del 6 Agosto 2019 e quindi delle successive occupazioni, si sono aggiunte all’assemblea tante nuove anime che ci hanno permesso di continuare mettendo in campo nuovi percorsi, saperi ed energie. Come avrebbe senso percepirci? Non crediamo che ci sia uno schema preciso, siamo un organismo fluido senza referenti che si adatta a varie situazioni.

In questo vostro ultimo insediamento, in via Stalingrado, state portando molte attività di confronto e discussione.
C’è in corso anche un percorso di studio sull’eredità teorica di David Greaber. C’è come la sensazione che nell’atmosfera creata da Infestazioni si privilegi il modus operandi, il metodo, rispetto all’ottenimento di risultati a tutti i costi.
Privilegiate l’orizzontalismo – anche se fa perdere tempo – rispetto al verticalismo che corre più veloce alla meta?

Crediamo che alla base di molta della sofferenza all’interno di questa società vi siano le strutture verticistiche che la regolano. È una sfida del quotidiano che ci permette di non dare mai niente per scontato, ma anzi a focalizzarci sulla decostruzione e sull’autocritica.
Del resto, come possiamo sperare di portare maggiore orizzontalità in questa società se non proviamo a farlo neanche nelle nostre vite?

Come avvengono le vostre assemblee? Come viene gestita l’eterogeneità delle posizioni? Avete un metodo, considerando che anche la sua eventuale mancanza rappresenta una scelta? Potete dirci qualcosa in merito?

Il metodo di cui ci dotiamo è il metodo del consenso. Per gestire le assemblee in modo che si arrivi a delle decisioni il più possibile condivise che integrino le singole sensibilità, i posizionamenti e che cerchino di tendere all’orizzontalità. Ci siamo dotati degli strumenti il più possibile adatti alla nostra natura. In alcune circostanze i metodi cambiano e si adattano ai tipi di assemblee e circostanze, è un continuo lavoro che ci spinge costantemente a metterci alla prova.
In passato abbiamo seguito formazioni per questo intento che ci hanno aiutato e ne abbiamo programmate altre per il futuro.

E una battuta su cosa significa partecipare, visto che va molto di moda?

La partecipazione è una delle retoriche utilizzate da chi ci sussume: noi ci mettiamo in gioco quotidianamente per non creare contenitori predefiniti in cui degli utenti possano partecipare, ma invece cerchiamo di co-costruire progettualità dal basso attraverso l’autogestione.

Quale sarà la vostra futura linea d’azione e di riflessione dopo questo ennesimo sgombero?

Questo sgombero non ha cambiato la nostra linea d’azione, continueremo a infestare e a contaminare la città per autodeterminare le nostre vite.


Foto di: Gianluca Rizzello, Dario Benegiamo, Infestazioni

Verso la manifestazione del 22 ottobre a Bologna

Gli spazi pubblici devono rimanere pubblici!


Gli spazi pubblici esprimono valori culturali e sociali non sostituibili e forniscono benefici ecosistemici ed ambientali vitali. Il loro processo di privatizzazione è ovunque sempre più esteso e aggressivo.

Grandi aree pubbliche dismesse, in particolare le aree militari e quelle ferroviarie, sono oggetto di enormi processi speculativi che le stanno trasformando in centri commerciali, abitazioni private, centri direzionali, parcheggi. Con l’alibi delle compensazioni arboree, è sempre prevista la distruzione di vaste aree verdi preesistenti. 

Interventi di privatizzazione di aree e strutture pubbliche rappresentano il cavallo di Troia per trasformare interi quartieri in zone riservate ai ceti benestanti, modificandone in modo irreversibile la composizione sociale: si pensi – ad esempio – al progetto in fase di approvazione definitiva per lo stadio San Siro a Milano, o a quello – per ora accantonato a seguito di una forte mobilitazione popolare – che a Bologna prevedeva l’edificazione di un quartiere residenziale da 1200 alloggi nell’area ex militare dei Prati di Caprara, rinaturalizzata spontaneamente a bosco negli ultimi 40 anni. 

Il turismo predatorio altera il volto dei centri storici, stravolge il mercato immobiliare causando di conseguenza l’espulsione degli abitanti, pretende che lo spazio pubblico possa essere vissuto soltanto pagando profumatamente per sedersi ai tavoli dei bar e dei ristoranti che lo invadono in modo sempre più massiccio e arrogante. 

Gli spazi autogestiti sono ovunque sotto attacco: a Bologna sono stati sistematicamente sgomberati, e i luoghi che prima erano attraversati da una moltitudine sono stati lasciati alla polvere. 

Per giustificare questa azione distruttiva dei beni comuni e dei legami sociali, si ricorre all’abuso e alla distorsione del concetto di “rigenerazione”, che il linguaggio politico dominante ha modellato come strumento di marketing per occultare la sostanza delle operazioni in atto, che non sono a favore della comunità locali ma agiscono contro i loro bisogni e i loro desideri. Questi processi, infatti, estromettono i ceti deboli e le loro attività economiche e di sussistenza dalle aree interessate dalle trasformazioni urbanistiche, e distruggono di conseguenza tessuti socio-culturali diversificati e vitali.

La visione del territorio come strumento di estrazione di valore economico è uno dei pilastri di un modello di “sviluppo” legato alla cementificazione e all’incentivazione del trasporto privato, elementi che sono alla base anche del progetto del “Passante”, un’infrastruttura già molto invasiva e inquinante nella sua configurazione attuale, il cui ampliamento porterebbe alla distruzione di una fascia di habitat che sino ad ora ha faticosamente resistito. Una distruzione che includerebbe anche l’habitat umano, dato che l’infrastruttura attraversa molti quartieri, i più popolari e anche quelli che già ne subiscono i maggiori danni in termini di salute. 

L’invadenza di questo modello altera anche il ruolo degli organi di governo locali. Le amministrazioni pubbliche stanno abdicando al loro ruolo di rappresentanza delle cittadine e dei cittadini e si stanno trasformando in organi di raccordo e facilitazione di interessi privati finalizzati ad estrarre valore dai territori. I processi di partecipazione che le amministrazioni locali mettono in piedi per coinvolgere la popolazione nei processi di “rigenerazione” sono solo una finzione per dare una parvenza di legittimazione sociale a decisioni che vengono prese altrove. Il Comune di Bologna è il più attivo nella costruzione di questa macchina di costruzione del consenso che – nella realtà – espelle gli abitanti dai processi decisionali. L’obiettivo finale è quello di rendere omogeneo ciò che per natura è differenziato: l’ecosistema della vita associativa fatto di gruppi formali e informali, popolato da elementi diversi, dialoganti e conflittuali, che l’amministrazione bolognese pretende di ricondurre ad un unico approccio unificatore in virtù dell’efficienza e della funzionalità, dando origine a una monocoltura di “cittadinanza attiva” selezionata per la sua capacità di adattamento e dipendenza rispetto ai bandi e alla partecipazione pilotata.

Parlare di spazi pubblici significa quindi parlare di democrazia, dei diritti di cittadinanza e dei beni comuni. Questa è la posta in gioco.

CONVERGERE PER INSORGERE
Bologna, 22 ottobre 2022, ore 15,

Piazza XX Settembre

Un Parco per chi? La riqualificazione “green” che consuma suolo nel Parco della Montagnola

Il Parco della Montagnola di Bologna, il più antico nonché l’ unico parco pubblico del centro cittadino, è attualmente oggetto di un intervento di riqualificazione che consiste nella ricostruzione del grande padiglione centrale, da sempre dedicato ad attività sociali e ricreative, collocato nell’area più utilizzata del giardino. L’intervento è stato approvato e avviato all’improvviso, senza alcuna consultazione pubblica dei cittadini che il Parco lo vivono né del Comitato Free Montagnola, che da anni promuove la qualificazione delle attività all’interno del giardino comunale, che sono stati interpellati solo a cose fatte in perfetto stile partecipativo alla bolognese. Davanti alle proteste dei cittadini e alla richiesta di interventi di manutenzione  da tempo più urgenti e necessari, l’Amministrazione comunale è rimasta inamovibile, realizzando l’ennesimo esempio di manipolazione dei parametri – in questo caso di ‘consumo di suolo’- e degli strumenti amministrativi a vantaggio di politiche aggressive e impositive sul territorio e sui cittadini.
In questo articolo di Chiara Affronte, attivista del Comitato Free Montagnola, si parla di questa vicenda.

Il comitato Free Montagnola nasce per ‘restituire’ il parco ai cittadini e alle cittadine promuovendo attività all’ interno del Parco della Montagnola di Bologna


«Per consumo di suolo si intende qualsiasi tipo di copertura artificiale, ovvero qualsiasi suolo agricolo o naturale che viene convertito in infrastruttura; anche piazzali e cantieri, come indicato dal monitoraggio europeo».
Non ci sono dubbi per l’ingegnere Michele Munafò, ricercatore ad ISPRA – Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il quale commenta il report sul consumo di suolo in Italia (uscito in mezzo all’estate), da cui emerge che l’Emilia Romagna è terza per incremento annuale. Munafò chiarisce ulteriormente: «Il monitoraggio viene fatto con telecamere aeree che quindi fotografano ogni copertura, ogni estensione non naturale, ogni tettoia», spiega. Ecco perché anche l’edificio green progettato dall’architetto Mario Cucinella per il Comune di Bologna in Montagnola – che l’amministrazione insiste nel definire “verde”- consuma suolo, per l’Europa.

La petizione Non toccare il Verde

Lo sostengono da tempo i cittadini e le cittadine che hanno lanciato la petizione contro quella costruzione, convinti del fatto che i due milioni di euro stanziati per una struttura simile avrebbero dovuto essere utilizzati per la cura del parco, per arricchirlo di strutture innovative, inclusive e moderne, arredi e percorsi vita destinati all’attività all’aperto di persone appartenenti ad ogni fascia di età, adulti, anziani, adolescenti e bambini. Tuttavia, consapevoli del fatto che la cifra già impegnata è legata a risorse provenienti dal PNRR, chiedono con forza che si faccia il possibile per ripensare la decisione o che almeno l’edificio non superi le dimensioni della superficie sulla quale si trovava la vecchia tensostruttura: resti, quindi, nei 380 metri quadri e non arrivi ai 520 previsti dal progetto.

Una richiesta che ha un peso ancora più forte se si riflette sul cambiamento climatico in atto, per i firmatari della petizione che in poche settimane a giugno ha superato le mille firme. Perché – visto da quest’ottica – un edificio nuovo e più grande è in controtendenza rispetto alle emergenze attuali: «Rifiutiamo ogni logica di greenwashing; ingiustificabile il consumo di suolo in tempi in cui si dovrebbe aumentare il verde e non toglierlo», si legge nella petizione. Al suo interno si spiega chiaramente che «la Montagnola è il polmone di una zona della città che non ha altro verde disponibile: aumentare la superficie edificata per una struttura di cui oggi non si conosce la finalità concreta ci pare in controtendenza rispetto a ciò che l’Europa e l’emergenza ambientale richiedono».

Un edificio non è un prato!

L’Amministrazione, dal canto suo, continua – per l’appunto – a definire la struttura “verde”, adducendo come motivazione il fatto che buona parte dell’edificio non sarà effettivamente chiusa, ma sarà percorribile, attraversabile, perché costituita da sola tettoia e il terreno sottostante resterà permeabile. Ma permeabile non significa fruibile allo stesso modo di un prato: non sarà verde, insomma. Su questo punto Munafò fa chiarezza: «Anche se la tettoia è meno impattante, per il monitoraggio stabilito a livello europeo, questo è suolo consumato».

Il fraintendimento normativo sul consumo di suolo

Il “fraintendimento” sorge dal fatto che non esiste una normativa nazionale. Inoltre, «nelle leggi regionali (nel caso delle Regioni che hanno normato su questo tema), sono previste molte deroghe -fa sapere ancora Munafò. Si sostiene, ad esempio, che le infrastrutture strategiche non debbano essere conteggiate nel consumo di suolo oppure che quanto viene fatto all’interno del tessuto urbano non è consumo di suolo, o che laddove gli strumenti urbanistici  identifichino delle aree come edificabili, se poi in futuro si costruisce, quello, di nuovo, non è consumo di suolo perché era già consumato». Ma, chiarisce l’ingegnere di ISPRA: «Non si considera che, quando avviene la trasformazione, si crea un impatto ambientale, cioè consumo di suolo, appunto, per il nostro monitoraggio». Ecco perché «molti Comuni si trovano a seguire queste indicazioni che non sono proprio coerenti con la finalità di tutela di una risorsa ambientale, soprattutto non sono coerenti con le indicazioni di orientamenti europei».

Ma lo scontro con il Comune è anche su un piano più ampio: il cantiere è stato delimitato e chiuso in primavera e, nonostante i lavori si siano fermati ad aprile, l’area è rimasta recintata e non utilizzabile per tutta l’estate. Per il Comune “perché insicura”; ma i cittadini e le cittadine insistono nel sostenere che le poche buche, fatte per effettuare i carotaggi alla ricerca di eventuali ordigni bellici, avrebbero potuto essere coperte per poter rendere fruibile la zona nella calda stagione estiva, in attesa dei lavori previsti per l’autunno, e anche per poter manutenere il prato.

Un parco per chi?

Soprattutto, ciò che viene contestato con forza, è il progetto piovuto dall’alto, imposto, senza alcuna iniziativa di confronto con cittadini e cittadine.
Il “percorso partecipato” sulla Montagnola è arrivato, infatti, a progetto fatto e a petizione lanciata, come a «normalizzare» il dissenso, contestano i firmatari. Durante l’incontro con i cittadini, la Capo di Gabinetto Matilde Madrid (il primo cittadino era assente per indisposizione ndr) ha assicurato un impegno di 600mila euro sulverdee i giochi/arredi, con risorse che potrebbero arrivare dal bando “Impronta verde”, oltre ad un avviso per la gestione degli spazi e un percorso per definirne la tipologia di utilizzo.
Resta per tanti cittadini e cittadine «la sproporzione tra le risorse investite “per il mattone” e quelle ipotizzate per ilverde».

Non sparate sulla Delibera!

La partecipazione, quella vera, a Bologna fa paura. Il Comune mette subito i bastoni fra le ruote alla Delibera di iniziativa popolare sugli spazi pubblici, con intoppi burocratici mal costruiti.
Ma non finisce qui! Non ci fermeremo finché non giungeremo alla raccolta firme e alla discussione in Consiglio comunale.


Lo sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata, ma almeno speravamo che si permettesse al Consiglio comunale di esprimersi. E invece no! La Segreteria generale del Comune cerca di non farla nemmeno arrivare in aula, la Delibera di iniziativa popolare che porterebbe scompiglio nella giunta più progressista d’Italia. Sì, perché la Delibera sottrae gli spazi pubblici alle tante speculazioni (e interessi) che stanno spadroneggiando in città.

Dopo mesi di lavoro intenso tra centinaia di persone, gruppi, associazioni che hanno attraversato Diritti alla Città, supportate anche da giuristi, urbanisti, esperti di amministrazione locali e nazionali, in 15 giorni la Segreteria boccia la proposta.

La Delibera di iniziativa popolare è uno strumento di partecipazione cittadina prevista dallo Statuto del Comune di Bologna.Un Comitato di cittadine e cittadini presenta alla Segreteria generale del comune la Delibera che ne verifica la legittimità. 
Se accolta, si raccolgono almeno 2.000 firme in 3 mesi. La Delibera poi viene discussa e votata in Consiglio comunale.

Questa bocciatura è illegittima!

1) La proposta di delibera viene cancellata con una semplice lettera, mentre il Regolamento comunale prevede che la Segreteria si adoperi per rendere ammissibile la proposta, agevolando chiarimenti e integrazioni. Nessuno ha convocato il Comitato promotore! In barba alla partecipazione.

2) La Segreteria sostiene che la Delibera di iniziativa popolare deve essere un atto di indirizzo e non può prevedere “previsioni puntuali”. Non è vero! Lo Statuto non pone invece alcun limite alla natura della delibera. Si tratta di una restrizione arbitraria dei diritti di partecipazione.

3) Si rigetta la legittimità formale della Delibera con obiezioni di carattere politico che travalicano la competenza del Segretario comunale, esautorando addirittura il Consiglio comunale!

Cosa vuole la Delibera?

• Che gli immobili dismessi vengano recuperati e riutilizzati per le tantissime iniziative sociali, culturali e di interesse pubblico promosse e gestite dalle comunità.
• I 200 spazi pubblici non devono essere venduti, svenduti o subdolamente privatizzati, impedendo il loro uso collettivo e distruggendo porzioni di verde urbano.
• Le decisioni su questi beni che sono di tuttə devono passare attraverso un Tavolo cittadino permanente per la cultura e la gestione dei beni comuni, aperto alla società civile e alle comunità locali.

Per approfondire:
> SINTESI IN 9 PUNTI
> TESTO INTEGRALE
> dirittiallacitta@riseup.net

E poi hanno letto poco e male, tanta era la fretta di bocciare: avanzano una serie di eccezioni specifiche infondate, frettolose, prive di riferimenti normativi, oppure rimandano a norme per nulla pertinenti.

Lo Statuto del Comune prevede di facilitare il ricorso all’iniziativa popolare, non di ostacolarlo e liquidarlo con un tratto di penna burocratico!

Di fronte a questa incredibile forzatura, il Comitato per l’iniziativa popolare ha inviato al Comune un’articolata risposta contestando punto per punto le dichiarazioni di illegittimità. Si chiede una nuova valutazione e una tempestiva convocazione delle cittadine e dei cittadini che hanno scritto la delibera. 

L’unica partecipazione ammessa in questa città “campionessa di progressismo” è quella artificiosa promossa dal Comune, che chiama cittadine e cittadini a discutere cose secondarie, mentre le scelte importanti sono state già prese ben lontano dai loro occhi.

È inaccettabile. Non si può impedire – con motivazioni strumentali – che le persone conoscano e firmino la proposta di Delibera. Non si può impedire con una censura burocratica che il Consiglio comunale abbia la possibilità di discutere e deliberare su una proposta della cittadinanza così importante.

Non ci fermeremo!

Dove osano le oche?

di D(i)ritti alla Città


Le artiste che hanno adottato l’oca come simbolo dell’azione di mappatura e affissione degli spazi pubblici dismessi, andata in scena circa un mese fa durante Art City Night (qui l’articolo di Radio Città Fujiko) hanno indubbiamente compiuto una scelta accurata.

L’oca infatti è un animale che vanta delle virtù molto specifiche: fiera guardiana degli orti, a tal punto da essere utilizzata come animale da guardia (celeberrima la leggenda delle oche del Campidoglio), che sta in gruppo e che in volo offre il cambio alla compagna alla guida della formazione, quando questa è stanca. L’oca porta a spasso le persone lungo un percorso, nel gioco che da lei prende il nome.

L’oca sa anche essere essere autoironica, conservando la fanciulla papera che è in sè, senza rinunciare a starnazzare.

Sarà provocato da un effetto simile alle macchie di Rorschach? Alla polisemia del simbolo? O si tratta davvero anche di qualcunə che sbircia dal buco della serratura?

Balza alla mente anche il segno di Pea Brain, che animò le superfici di alcuni spazi residuali bolognesi tra gli anni ‘80 e gli anni ’90.

L’ispirazione contenutistica non può disgiungersi dal lavoro che altri soggetti, reti e gruppi hanno svolto e stanno svolgendo da tempo per segnalare un patrimonio pubblico ufficialmente mai censito (né gestito), come ad esempio l’indagine di Zic (Chiedi alla polvere), la mappatura dei quasi 700 vuoti urbani, il rumore generato da Banca Rotta SRL e le azioni svolte da D(i)ritti alla Città da un anno a questa parte.

A completare l’operazione infatti è il QR Code che rimanda a una mappa interattiva, dove alcuni dei circa 200 spazi pubblici abbandonati vengono raccontati in modo essenziale, per cos’erano e per cosa sono ora: «spazi vuoti, chiusi, sottratti alla comunità». Ma utilizzando uno strumento visivo-narrativo come la storymap.

Le oche ci hanno affascinatə non solo per il tempismo con cui si sono incuneatə nell’emergente (rovente!) discorso sugli spazi o per la tattica con cui hanno agito, ma anche e proprio per la potenza del simbolo e la qualità della sua realizzazione.

Quello che ci chiediamo e la domanda che rivolgiamo direttamente alle oche è: dove e come continuerete ad alimentare quest’operazione, se intendete farlo? O si è trattato di un’azione estemporanea?

D(i)ritti alla Città ha consegnato alla Segreteria del Comune di Bologna la “proposta di delibera di iniziativa popolare”, ritualizzata nel suo lancio il 15 giugno 2022 con la performance collettiva tana (DE)LIBERA tuttə!, quando abbiamo raccontato in Piazza del Nettuno alcuni tra gli spazi pubblici dismessi, emblematici per le loro connessioni con i punti salienti della delibera.

Entro 15 giorni dalla consegna il Comitato riceverà un parere sull’ammissibilità tecnica e, in caso di nullaosta, farà partire a tempo debito una campagna per raccogliere in 3 mesi le almeno 2000 firme necessarie a portarla in Consiglio Comunale, affinché questa venga discussa e votata.
Sarebbe la prima volta che a Bologna si produce un simile processo di discussione dal basso delle politiche urbane, a 30 anni dall’introduzione dello strumento di delibera popolare nello Statuto del Comune.

Oche, dove siete?
Volete incrociare il nostro stormo?
Portiamo l’oca “in campagna”?


(Tenteremo di raggiungere le oche pubblicando nei prossimi giorni via social alcune immagini che ritraggono le affissioni, accompagnate dalle parole con cui abbiamo raccontato gli spazi in Piazza del Nettuno.)

L’illusionismo dell’innovazione (urbana): l’esperienza del Laboratorio Spazi

di Comitato per la Promozione e la Tutela delle Esperienze Sociali Autogestite


L’articolo che segue riporta una riflessione scritta a più mani a inizio 2019 da alcune persone parte dell’ex Comitato per la Promozione e la Tutela delle Esperienze Sociali Autogestite (ESA)*. L’articolo fa riferimento ad alcune questioni critiche emerse durante la partecipazione come Comitato ESA al Laboratorio Spazi, laboratorio coordinato nel 2018 dalla Fondazione Innovazione Urbana con la finalità di “ridisegnare le politiche e gli strumenti di gestione e affidamento di immobili di proprietà comunale”.
Ci sembra sensato che queste riflessioni, che non hanno avuto allora una forma pubblica, trovino ora a distanza di qualche anno uno spazio di pubblicazione (con un’integrazione finale) attraverso D(i)ritti alla città, con lo scopo di contribuire alla memoria collettiva cittadina dal basso e oltre alla retorica istituzionale.
Sono molti i punti di continuità tra le questioni sollevate in quel momento e i principi espressi nel Manifesto per gli spazi pubblici dismessi. Anche se le realtà cambiano e si trasformano, continuiamo a portare avanti le stesse battaglie per l’accessibilità e l’autogestione degli spazi pubblici!

* Il Comitato ESA è nato nel 2014 con lo scopo di promuovere e tutelare le Esperienze sociali autogestite già esistenti nel territorio di Bologna, nonché di favorire la nascita e la moltiplicazione di nuove esperienze che assumano l’autogestione e l’orizzontalità decisionale quali propri principi guida. Si è sciolto nel 2019. https://comitatoautogestione.noblogs.org/


Per una nuova politica degli spazi in città” (PNPS) è il documento conclusivo del Laboratorio Spazi, laboratorio “partecipato” proposto dall’amministrazione cittadina e facilitato dalla Fondazione per l’Innovazione Urbana (FIU), ex Urban Center. Tale documento ha lo scopo di fornire delle linee guida all’amministrazione per la costituzione di un nuovo regolamento per l’assegnazione degli spazi immobili comunali. Come Comitato ESA abbiamo partecipato ai cinque incontri del laboratorio (che si sono svolti tra giugno e novembre 2018), ai quali erano presenti realtà cittadine tra loro molto eterogenee (centri sociali anziani, associazioni, cooperative, imprese culturali, gruppi informali, spazi sociali).

Partecipazione o solo ascolto?

Il processo fin dall’inizio è stato criticato dai partecipanti in quanto, differentemente da ciò che era stato preannunciato dalla FIU, non è stato possibile definire collettivamente le caratteristiche del processo stesso (numero di incontri, scelta delle date, tempi e orari, contenuti).

La facilitazione, molto strutturata, ha lasciato poco spazio di confronto tra le realtà, e si è spesso tradotta in un botta e risposta tra facilitatore/rice e singolo/a partecipante. In questo senso ci sembra di poter definire il Laboratorio Spazi più come un momento di raccolta e rielaborazione delle varie istanze piuttosto che come un processo realmente partecipativo.

Quale innovazione?

Il documento PNPS si pone sostanzialmente in continuità con le modalità già in atto di assegnazione e gestione degli spazi pubblici in città. In particolare non viene modificato il ruolo centrale e prevalente della amministrazione pubblica nella scelta di quali spazi assegnare e con quali finalità d’uso. Non ci sembra che sia stato introdotto alcun elemento realmente innovativo rispetto al dibattito sui Beni Comuni che anima il panorama nazionale ed internazionale, sebbene molte realtà abbiano sollecitato la Fondazione sulla necessità di fare un reale passo in avanti. Secondo quanto descritto da chi ha condotto questo percorso, invece, sarebbe stato introdotto un elemento di grande novità. Qual è la nuova proposta? Le Assemblee Territoriali (pag 15 punto d. del documento), ovvero unica modalità che permetterebbe a soggetti informali e autogestiti di partecipare all’assegnazione di uno spazio comunale.

Ciò non è totalmente vero e non appare di certo una novità: nel “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” del 2014 (allegato alla delibera PG n. 45010/2014, come modificato dalla delibera PG n. 9961/2018), che all’art. 5 ha introdotto i famigerati Patti di Collaborazione, vi era già la possibilità per i soggetti informali, individuati come “cittadini attivi” ex art. 4, di vedersi affidato un luogo. Sebbene già prevista, tale modalità non è però mai stata messa in pratica per l’assegnazione di uno spazio, né davvero valorizzata dalla amministrazione comunale. Perché questa volta dovrebbe funzionare?

Al solito: tutti contro tutti e vinca il migliore…

La novità delle Assemblee territoriali non è altro che la riproposizione della coprogettazione inserita all’inizio di un iter di cui l’amministrazione ha sempre il controllo. Tale coprogettazione facilmente si traduce in una competizione tra le varie realtà per il posto in palio, posto che non può essere proposto dal basso ma che viene deciso dall’amministrazione attraverso un avviso pubblico con il quale si aprono i lavori. Se infatti le parti non dovessero trovare un accordo entro un tempo stabilito (due incontri di un’ora!) per unire le diverse progettualità, l’amministrazione mantiene il compito di decidere quale fra i soggetti partecipanti abbia il diritto di sottoscrivere il patto di affidamento (p.12 PNPS). È irrealistica la possibilità di costruire un progetto comune in così poco tempo, tra realtà eterogenee e che non si conoscono.

Allora la “novità” è questa?

In presenza di ampia condivisione all’interno dell’assemblea sul modo di gestire l’immobile, la governance dell’immobile viene affidata direttamente all’assemblea stessa attraverso la stipula di una convenzione tra l’amministrazione e un comitato di garanti, che ha il compito di assicurare il rispetto delle regole e degli obiettivi che l’assemblea si è data” (pp.10-11 del PNPS).

Anche qui, nessuna novità ma come al solito un passo indietro! Poteva essere un’occasione per promuovere un modello di riconoscimento degli spazi e di indipendenza e autonomia delle assemblee degli stessi. Invece nella proposta della FIU non c’è riconoscimento di questa autonomia ma vengono semplicemente modificati i numeri e il controllo viene affidato a un comitato interno di garanti: se prima la responsabilità legale era di uno ora è trina o più!

Niente di nuovo a Bologna…

Nella sostanza, quindi, non vi sono grandi modifiche: il ruolo decisionale dell’amministrazione nell’assegnazione degli spazi in città rimane inalterato e si fa un uso strumentale dell’autogestione con il solito tentativo di appropriazione, solo lessicale, delle pratiche nate dal basso. Nessun passo avanti rispetto all’importante dibattito in corso sui beni comuni, nonostante il Laboratorio Spazi vi abbia più volte fatto esplicito riferimento, invitando anche come ospiti esperti realtà autogestite che in Italia hanno contribuito a sollevare il tema dei beni comuni in maniera seria e arricchente (quali, l’ex Asilo Filangeri di Napoli e Macao di Milano).

Quello che emerge dal percorso del Laboratorio e dall’esame del documento finale è il riproporsi del modello partecipativo alla bolognese: il risultato è predefinito prima ancora che il processo abbia inizio. In un articolo della rivista Asini, “Partecipazione senza potere“, cui rinviamo, tale modello è stato analizzato e sviscerato in profondità. Nuovamente le istituzioni si sottraggono al dibattito sugli spazi in città – che non sono solo immobili, ma anche piazze, giardini, luoghi abbandonati e privati. Evitando il confronto e costringendo di fatto esperienze consolidate a frammentarsi e a scendere a patti con la FIU e con altri soggetti partecipanti all’avviso pubblico,l’amministrazione ribadisce che la sua finalità non è conoscere e valorizzare le espressioni della cittadinanza, ma piuttosto controllare e indirizzare queste realtà per poter costruire un proprio consenso e pensare così di risolvere anche questioni politiche legate all’esistenza di spazi cittadini (antagonisti).

Integrazione successiva (che non sapevamo ancora quando abbiamo scritto queste riflessioni):
Rispetto alle criticità sopra riportate ci pare emblematica la mancanza di comunicazione e trasparenza da parte della FIU sugli sviluppi del processo, in particolare relativamente all’approvazione (o meno) da parte del Consiglio comunale del documento conclusivo del Laboratorio, il PNPS, e alla successiva applicazione dello stesso.
A conclusione del Laboratorio (novembre 2018) ci era stato annunciato un convegno per l’inizio del nuovo anno in cui il PNPS sarebbe stato presentato pubblicamente, e al quale sarebbero stati invitati anche i tre garanti esterni, previsti dal PNPS (pag. 25). In seguito, grazie anche al contributo dei pareri dei garanti, si sarebbe dovuto ridiscutere collettivamente nell’ambito del Laboratorio delle eventuali modifiche introdotte dall’amministrazione. Ciò non è mai avvenuto né ci è stata data notizia in merito. A distanza di qualche settimana di silenzio, la FIU ha pubblicato un avviso pubblico per 5 immobili * mettendo così in pratica la “sperimentazione” presentata nel PNPS.
È poi emerso che il PNPS poteva essere attuato senza modificare i regolamenti già presenti per l’assegnazione degli spazi, a dimostrazione che nulla è sostanzialmente cambiato!

* Uno degli immobili presenti nell’avviso pubblico è quello di via Fioravanti 12 (Banca Rotta). Si rimanda all’articolo pubblicato su questo stesso sito.


Prati di Caprara: un Bosco urbano dalla “jungla” dei conflitti

di Comitato Rigenerazione no Speculazione


Da anni pomo della discordia tra chi li considera un bacino di “degrado”, quindi opportunità economica da “riqualificare” a beneficio di investimenti privati, e chi li vive come un polmone per la città, i Prati di Caprara sono un tema centrale per le attuali e future politiche ambientali di Bologna. La lotta dei comitati per la preservazione dell’habitat naturale e della sua destinazione pubblica fa leva su un profondo cambio di paradigma: da “verde percepito”, edificabile, a Bosco urbano innestato alla città.


I Prati di Caprara sono un’area ex militare demaniale complessivamente di circa 44 ettari, che negli ultimi decenni, e in particolare a seguito della dismissione delle caserme, è stata protagonista di un importante processo di naturalizzazione. L’area è distinta in due zone, ovest ed est. Nell’area Est (27 ettari) la sostanziale totalità degli edifici militari sono stati demoliti, e si è sviluppato un bosco urbano spontaneo, mentre nell’area Ovest sono rimasti edifici dell’area militare e una importante area verde, con alberi adulti e zone a prati.

Immaginitratte da: ‘IL BOSCO URBANO DEI PRATI DI CAPRARA servizi eco-sistemici e conflitto socio-ambientale’ di G.Trentanovi, A.Alessandrini, B.Roatti

Il bosco urbano spontaneo dei Prati di Caprara di Bologna come patrimonio ecologico di biodiversità e di sostenibilità

Il bosco dei Prati di Caprara Est è un ecosistema forestale di 27 ettari sito in Bologna, tra via Saffi e il torrente Ravone, nelle adiacenze dell’ospedale Maggiore, in una delle aree di maggiore inquinamento atmosferico di Bologna. Gli studi effettuati evidenziano il contributo che questo ecosistema svolge nell’erogazione di servizi ecosistemici unici e molteplici, di altissimo livello quali-quantitativo, e non compensabili dall’attuazione di progetti che ne prevedano l’eliminazione, anche solo parziale.

Dal punto di vista strettamente naturalistico, la biodiversità dell’area è molto elevata. Sono state infatti osservate:

  • 200 specie di flora (erbacea e arboreo-arbustiva): un numero di specie elevatissimo se confrontato con la biodiversità vegetale delle aree urbane regionali e non. Un buon numero di specie è tipico di ambienti boschivi, ottimo indicatore del grado di evoluzione ecologica dell’area in decenni di libera evoluzione;
  • 61 specie di uccelli, molti dei quali (es. rapaci notturni, l’usignolo, il pettirosso, ecc..) non presenti nelle aree verdi urbane convenzionali e di interesse conservazionistico (anche di interesse comunitario, quale il falco pellegrino che è spesso in volo sull’area per ragioni trofiche);
  • 40 farfalle: sono stati monitorati solo i lepidotteri diurni, senza monitorare i notturni che solitamente in rapporto ai diurni sono circa 10 volte di più;
  • 7 specie di erpetofauna: alcune recenti segnalazioni in aree contermini e collegate funzionalmente ai Prati di Caprara rendono molto probabile la presenza del tritone crestato italiano, Triturus carnifex, specie di interesse comunitario;
  • almeno 60 specie di funghi: numerosità di specie elevatissima anche paragonandola agli estesi ambienti collinari di Bologna e con diverse entità non comuni.

Per quanto riguarda i servizi di regolazione della qualità dell’aria e l’attenuazione dei fenomeni legati ai cambiamenti climatici, sono ca. 720 i Kg di NO2 assorbiti all’anno e la vegetazione è in grado di catturare e metabolizzare da 900 a 1800 Kg di polveri sottili (PM2.5 e PM10); sono tra le 90 e le 260 le tonnellate di CO2 assorbite all’ anno per un pool di almeno 3500 tonnellate di carbonio stoccate. Le temperature superficiali durante i periodi più caldi sono di quasi 10 gradi inferiori rispetto all’ adiacente area dello scalo ferroviario e almeno 4-5 gradi inferiori rispetto alla terza cinta muraria.

foto: Gianluca Rizzello

Le previsioni urbanistiche sul bosco e la mobilitazione dei cittadini: un conflitto socio-ambientale

Nel Piano Urbanistico Generale (2020) il bosco dei Prati di Caprara è stato riconosciuto come elemento importante delle infrastrutture verdi e blu del territorio di Bologna, ma è stato individuato anche come sito dove eventualmente realizzare edilizia sociale e in affitto. Il PSC (Piano Strutturale Comunale) del 2009 individuava l’area come “ambito di sostituzione”, suscettibile di interventi edilizi con un mix di destinazioni d’uso dal residenziale, al terziario, al commerciale. Questa destinazione fu confermata dalle scelte del POC (Piano Operativo Comunale) del 2016 “Rigenerazione dei patrimoni pubblici”, che prevedeva per l’area oltre 1.000 alloggi e creava le condizioni perché nei vicini prati Ovest si potesse realizzare una grande struttura commerciale, previsione poi decaduta. Il sistema degli interventi nel quadrante dei Prati (che prevede anche un Prati Nord) era legato a doppio filo con quelli previsti nelle aree ferroviarie in via di dismissione (area Ravone), che se realizzati porterebbero alla costruzione di un vero e proprio nuovo quartiere nella città di Bologna.

Il recente PianoTerritoriale Metropolitano (2021), riconosce la destinazione ad area boscata di larga parte della zona (19,6 ettari su 27 circa), inserendola nell’Ecosistema boscato. In realtà questo riconoscimento dell’esistenza del bosco, era già presente nel progetto di rete ecologica allegato al PSC del 2009.

In conclusione, sull’area dei Prati di Caprara, pur a fronte di un crescente riconoscimento dell’esistenza di un bosco urbano con un elevato valore ecologico, continuano ad esistere quindi previsioni contraddittorie e rischi concreti di una sua edificazione.

Nel 2017 è nato un comitato di cittadin*, Rigenerazione no Speculazione, che si è opposto ai progetti di rigenerazione che avrebbero portato alla distruzione del bosco, secondo quanto previsto dal POC 2016 di “Rigenerazione dei patrimoni pubblici”, nell’ambito di una intesa quadro tra Comune di Bologna e Demanio. Il comitato ha sviluppato azioni di sensibilizzazione della cittadinanza e, attraverso mobilitazioni di protesta e promozione di studi e ricerche sul valore ecologico del bosco, sta lottando per una revisione radicale delle previsioni urbanistiche sull’area, attualmente affidata ad una società controllata dal Ministero Economia e Finanze, Invimit Sgr, per la sua valorizzazione sul mercato.

foto: Gianluca Rizzello

Le varie attività di informazione, divulgazione scientifica e disobbedienza civile promosse dal Comitato RNS hanno incrementato la sensibilità pubblica sul tema della preservazione del bosco e connessa strategicità ambientale-climatica e sociale, ottenendo il sostegno nella mobilitazione da parte di diversi gruppi, associazioni, altri comitati e movimenti sociali e ambientalisti. Il Bosco dei Prati di Caprara è divenuto così il bosco della discordia, come titolato da un noto quotidiano locale, o meglio un’area contesa tra visioni, politiche, sensibilità e logiche contrapposte, se non conflittuali.

In particolare, il Comitato ha promosso un processo partecipativo autogestito con un gruppo di cittadin* (ParteciPrati, 2017-18); un’istruttoria pubblica in Consiglio Comunale per la revisione delle previsioni urbanistiche sull’area (2018) che ha portato a un odg della maggioranza che accoglieva in parte le richieste del comitato, e un Dossier tecnico scientifico sui valori ecologici, naturalistici e sociali del bosco urbano dei Prati, che è stato trasmesso a tutte le istituzioni interessate (2020).

Contemporaneamente il Comitato RNS si è attivato nella promozione di una petizione cittadina – ‘Cambiare il POC si può’- con la principale richiesta di un Piano Operativo Comunale alternativo a quello del 2016 che ha raggiunto oltre diecimila firme cartacee; inoltre nell’ottobre 2018 una folla di circa 2.500 persone ha risposto all’invito ‘Abbracciamo il bosco’ distribuendosi lungo il perimetro dell’area in un abbraccio simbolico e protettivo; cinque mesi dopo,il 16 marzo 2019, al grido ‘Il bosco che cammina, il potere trema’, diverse migliaia di cittadin* vestit* da alberi hanno intrapreso una marcia festosa che ha attraversato la città fino a Piazza Maggiore, sotto alle finestre del Comune, testimoni di un bosco che lotta e si ribella alle speculazioni edilizie. Diverse passeggiate naturalistiche e didattiche, pic-nic, giornate di pulizia dai rifiuti, concerti, escursioni in bicicletta, semine per la ricorrente ‘Festa degli alberi’, organizzate regolarmente dal Comitato in questi anni, hanno dimostrato che il bosco è di fatto già fruibile, consentendo alla città di cominciare ad appropriarsene.

Il bosco dei Prati di Caprara è stato riconosciuto come “luogo del cuore” all’interno del 9º censimento della campagna del Fondo per l’Ambiente Italiano, grazie a una campagna promossa dagli stessi cittadini (17.727 voti, 19º posto nella classifica nazionale 2018, a fronte del dichiarato boicottaggio delle istituzioni cittadine, che avevano candidato l’originario edificio liberty delle Terme di Porretta come elemento di distrazione).

Il progetto di sistemazione dei sentieri e di valorizzazione naturalistica e didattica dell’area ha ricevuto il premio “menzione speciale” nel concorso Antartide 2019 “Bologna città civile e bella” promosso dal Comune di Bologna, Hera e Resto del Carlino.

foto: Gianluca Rizzello

Migliaia di cittadini sono attualmente attivi per preservare il bosco urbano spontaneo, che rappresenta anche un luogo identitario in quanto sede dal 1700 ad oggi di numerose vicende di rilevanza storico-paesaggistico (dinamiche interattive con i flussi del torrente Ravone e della canaletta Ghisiliera) e culturale (dalle tournee di Buffalo Bill alle partite a calcio di Pasolini). Per raccogliere queste tracce in una storia completa del sito il comitato ha creato e cura la pagina dedicata su Wikipedia, in italiano e in lingua inglese (https://it.wikipedia.org/wiki/Prati_di_Caprara). Nell’estate 2020 il comitato ha mappato la rete di sentieri interni al bosco urbano, dove realizza periodicamente passeggiate pubbliche con i cittadini per mostrare la bellezza paesaggistica e il valore ecologico del bosco, qui la mappa dei sentieri e la loro denominazione ispirata al valore storico e naturalistico del sito https://rigenerazionenospeculazione.wordpress.com/2020/06/21/inaugurazione-dei-sentieri-nel-bosco-dei-prati-di-caprara/

Per maggiori approfondimenti si rimanda al testo/dossier sul bosco dei Prati, ‘IL BOSCO URBANO DEI PRATI DI CAPRARA servizi eco-sistemici e conflitto socio-ambientale’ di G.Trentanovi, A.Alessandrini, B.Roatti, da cui sono tratte anche le informazioni e le immagini di questo articolo.

https://rigenerazionenospeculazione.wordpress.com/
https://www.facebook.com/Rigenerazionenospeculazione


Banca Rotta: l’importante è “partecipare”?

L’Amministrazione bolognese adotta formule come “Immaginazione Civica” e “Innovazione Urbana”, nomi seduttivi per rinnovarsi (nell’immagine) e far sognare… mentre l’esperienza mostra un’altra storia.

Di Banca Rotta SRL – Spazio Relativamente Liberato


C’erano una volta un bando e una “banca rotta”. Il bando è quello che nel dicembre 2018 il Comune di Bologna indìce per l’assegnazione di un locale in via Fioravanti 12 (in Bolognina, nel complesso dell’ex mercato ortofrutticolo), precedentemente occupato da una banca. Nel bando – tecnicamente, un avviso pubblico – viene auspicata «la sperimentazione di forme mutualistiche e collaborative di vicinato proprio al fine di rispondere ai bisogni del quartiere, soprattutto in riferimento ai mutamenti urbani dell’area».
Banca Rotta è il nome del gruppo – composto da dodici realtà associative già attive nel territorio – che decide di partecipare all’avviso pubblico facendo leva sulla forza aggregativa e non competitiva; e che nella proposta presentata delinea la trasformazione di uno spazio abbandonato (l’ex banca) in bene comune per il quartiere, per reagire alla mancanza di luoghi di aggregazione pubblici e aperti in cui poter promuovere cultura, socialità e idee, uno spazio che chiunque possa utilizzare… La proposta piace e Banca Rotta si aggiudica il bando cum laude! Un matrimonio perfetto e… «vissero tutti felici e contenti»? Fine della storia? E invece no: le nozze erano coi fichi secchi.
I locali dell’ex banca sono piccoli, fuori norma, con un piano superiore e uno sotterraneo inagibili, costi di gestione insostenibili… nulla di quanto progettato può davvero realizzarsi in quelle condizioni, in primo luogo l’accessibilità per tutte le persone e dunque l’apertura dello spazio al quartiere. Ma Banca Rotta, forte del vivo apprezzamento per il progetto, confida nell’avvio di una seria “coprogettazione”, proprio per superare questi ostacoli strutturali e dare inizio il prima possibile alla sperimentazione richiesta nel bando.

«Beh... è ovvio che se quello spazio fosse stato in buone condizioni lo avremmo messo a valore, non certo dato a bando!»

Sia beata la sincerità che si respira al Settore Edilizia e Patrimonio, perché proprio questa fu la candida risposta. Ed è forse proprio in questa frase che si riassume tutta intera la politica del territorio di chi governa la città. Una politica socialmente fallimentare, una vera e propria bancarotta delle varie amministrazioni che si sono succedute negli anni: da un lato, progetti di speculazione e gentrificazione faraonici, con sperpero di milioni di euro pubblici in opere incompiute, inutili o ridondanti ma funzionali agli appetiti di pochi. Dall’altro, l’espulsione di abitanti e delle realtà sociali radicate in quartiere. In più, un bel fico secco a ogni esigenza collettiva espressa dal basso, in forme indipendenti e non compatibili con i progetti istituzionali, alla faccia delle verniciature “partecipative”. Esempi lampanti di un simile fallimento sono i tanti sgomberi di spazi sociali e occupazioni abitative, che hanno sempre più desertificato questa città dal punto di vista sociale e culturale e che rivelano quanto l’Amministrazione (che pur si ammanta dello slogan «Resistere è creare»!) sia veramente aperta allo sviluppo di una genuina attività mutualistica che metta in discussione questo sviluppo urbano basato sul mero profitto. È l’esito coerente di una (in)cultura politica che crea mille ostacoli a reali percorsi di partecipazione dal basso, mentre costruisce ponti d’oro agli interessi di gruppi privati (che poi, bisogna ricordarlo, falliscono a loro volta…).

Banca Rotta vuole costruire un libero spazio comunitario e di socialità, perché le parole “immaginazione” e “civica” le piacciono molto (ma le due, insieme, ora molto meno). E allora, perché mai infilarsi nella triste storia dell’immaginazione civica e dell’innovazione urbana, pur criticando la miseria dei locali messi a disposizione dal Comune? Per diverse ragioni che, dopo più di due anni, restano gli assi portanti del progetto (che, ricordiamolo, ha regolarmente vinto quel bando per via Fioravanti 12, con atto esecutivo dal 19/4/2019).

  • Banca Rotta ritiene giusto che lo spazio in via Fioravanti 12 sia reso agibile e a norma, così che tutte le abitanti del Navile e della città possano utilizzarlo. Lo spazio infatti deve essere di tutte e non solo delle associazioni e gruppi informali che lo hanno “vinto” con l’avviso pubblico. Perché questo spazio non è stato ancora reso disponibile?
  • Banca Rotta ha constatato direttamente come l’Amministrazione metta a bando solo spazi in condizioni misere, o per dimensioni minime o per carenze strutturali, mentre centinaia di beni di proprietà pubblica, anche grandi e in buone condizioni, da anni o addirittura da decenni rimangono inutilizzati. Perché il Comune non mette questi spazi a disposizione della collettività?
  • Banca Rotta ritiene giusto che vengano ridiscusse le forme di gestione degli spazi e degli immobili pubblici, che devono essere “a uso civico” e considerati a tutti gli effetti dei “beni comuni”, perché al netto delle vuote dichiarazioni è necessaria una reale volontà politica di cambiamento. Banca Rotta chiede che si dia vita a un tavolo politico in cui associazioni, collettivi, gruppi della città discutano con l’Amministrazione sulla politica degli spazi pubblici della città in relazione alle esigenze sociali della cittadinanza, sugli spazi autogestiti e su quelli inutilizzati, così da restituirli alla cittadinanza in forme e modi diversi da quelli anacronistici fin ora obbligati dalle burocrazie. Perché si ha paura di coinvolgere davvero la collettività e di ascoltare i bisogni delle varie realtà associative?

Ma questa storia parla anche di una grave incoerenza istituzionale perfino rispetto alle stesse regole di una partecipazione farlocca, un gioco a carte truccate che l’Amministrazione ha imposto dall’inizio e Banca Rotta ha accettato di andare a vedere fino in fondo. Lo spazio è stato ufficialmente assegnato a Banca Rotta, a seguito di un regolare iter amministrativo (l’avviso pubblico) e quindi a termini di legge; ma il padrone di casa è improvvisamente scomparso con le chiavi. Nessuno ha ancora spiegato perché, dopo il passaggio formale dell’assegnazione dello spazio di via Fioravanti 12, e nel bel mezzo di un confronto per definire i dettagli del suo affidamento, dalla sera alla mattina il Comune sia letteralmente sparito; ben tre email (31 gennaio; 26 febbraio, 23 ottobre, posta certificata) inviate nel corso del 2020 sono rimaste senza alcuna risposta. Sarebbe anche una questione di educazione, volendo…
Intanto, nel silenzio imbarazzante dell’Immaginazione al potere, sono passati i mesi, è arrivato il Covid ed è naturale chiedersi cosa Banca Rotta avrebbe potuto fare per il quartiere in termini di mutuo sostegno sociale, se non ci fosse stata quell’ottusa – e finanche poco onorevole – fuga burocratica e politica. Ma tutto questo non può davvero stupire. Il destino degli spazi o beni pubblici a Bologna è sempre stato deciso totalmente dall’alto, senza un canale permanente e serio di consultazione/coprogettazione con le associazioni, i gruppi informali, i collettivi che a Bologna da anni producono cultura, socialità, mutuo aiuto, critica e partecipazione dal basso. Il Laboratorio Spazi, unico strumento previsto per la (teorica) compartecipazione alle decisioni, si è rivelato un misero diversivo privo di qualsiasi potere decisionale. La partecipazione si riduce alla retorica compiacente della «città con te», in realtà un tentativo di incanalare la socialità spontanea in percorsi falsamente orizzontali che conducono a un lieto fine solo se rispettano senza fiatare le compatibilità imposte a priori dall’alto, i compromessi al ribasso e le reciproche convenienze clientelari.
Conclusione? Banca Rotta ha toccato con mano la fuffa dell’innovazione urbana, dell’immaginazione civica e della partecipazione dal basso in questa città; ha attraversato in prima persona il paradosso per cui alla fame di spazi e socialità si risponde solo con le briciole. E alla fine, pur rispettando le regole, nemmeno quelle briciole. Evidentemente Banca Rotta non è più conveniente.

Per continuare a esistere come spazio politico, non disperdere il percorso di convergenza costruito tra diverse soggettività e rilanciare la rivendicazione del bisogno di spazi, a maggio 2021 esce The Banca Rotta, il giornale auto-prodotto che attraverso parole, immagini e diagrammi, racconta in modo esteso, analitico e accessibile una storia che altrimenti sembrerebbe una fiction, anzi… frutto dell’Immaginazione.

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